martedì 7 settembre 2010

Ciurma in viaggio - 4

Villeggiatura in Siberia, ossimoro  che si materializza tra le verdi valli dell’Altai con fiumi e laghetti, bungalow, pic nic, nuotate e ragazze in costume a prendere il sole.  Praticamente Rimini (russian style) in Alto Adige.  Una nuotata, ancora strada, la notte, la temperatura che crolla e il pernottamento in una una yurta tra i monti, la padrona che seppellisce di legna la stufa, il marito che ci porta una ciotola di miele e cerca una (minima) conversazione (gestuale).  Camminata alla volta del bar,  buio pesto,  i piedi che cercano l’asfalto per sapere dove andare, un’insegna come stella polare, tre birre d’asporto, la curiosità degli avventori, l'altarino con una (piccola) tv lcd tra fiori di plastica e centrini fatti a mano,  la barista blindata dietro il bancone da un’inferriata con rete metallica, il ritorno a tentoni ed un ubriaco che, sinceramente preoccupato debba camminare fino al paese successivo, mi rincorre e cade e mi chiama ( ehi, german...Italia, italia) per offrirmi un passaggio in auto.

Mongolia e spazi e cieli impossibili da costringere in foto o in parole ché l’infinito è un concetto e qui si materializza, popolato da colori, suoni, animali che cambiano ogni 50 km.
Noi si possono raccontare le praterie, le montagne, i deserti e lo zoo che liberamente li calpesta ( cavalli, bovini, cammelli, pecore, yak, capre, marmotte, topi, aquile, falchi, sparvieri, anatre, aironi cenerini, gabbiani reali, insetti non identificati etc)  vivendo a stretto contatto con l’uomo e al tempo stesso ignorandolo.
Una dogana senza armi né bandiere e  30 ore di sosta in attesa che da Londra regolino le pratiche dell’auto. Più di un giorno accampati su una lastra di cemento recintata e arbitrariamente dispersa tra le montagne, tra doganieri che sopportano l’ennesima domanda, team inglesi idioti, ufficiali che mentre fanno i visti  offrono cambio al nero,  poliziotti che la sera condividono gioiosamente le tue birre.  Cemento, uffici e una latrina, una baracca di legno col pavimento  senza un’asse, una stamberga in bilico su una fossa e tutti in coda,  che uno è lì e stringe le chiappe e vorrebbe  richiamare l’attenzione dell’occupante e dirgli di fare in fretta ma magari dentro c’è un ufficiale (e se fosse quello delle pratiche auto ?) che poi  ti esce dal cesso in parata: panza in avanscoperta, due mani sulla zip, sigaretta in bocca, sguardo fiero all’orizzonte, divisa d’ordinanza e  cappello (che da queste parti sembra più un ufo  in atterraggio). Oppure una poliziotta, che ha pure i tacchi e la gonna stretta e ci si chiede come faccia ché il pavimento quasi non  c’è, l’equilibrio è precario e la caduta sconsigliabile. Ma la Mongolia è terra di contorsioniste, questo è noto.

La convivenza produce riconoscimento e le regole cambiano: auto e passaporti in dogana ma ora si può andare a piedi in paese (una ventina tra tende e baracche e ex vagoni ora “ristoranti” teletrasportati nel nulla, tra aquile e falchi come piccioni, a 250km dalla tenda successiva ) e comperare qualcosa da bere o da mangiare. E vedere la doganiera tornare al lavoro dopo la pausa pranzo, sfilare lungo lo sterrato centrale, lunghi capelli neri al vento, candida camicia inamidata, giacca d’ordinanza ma  stretta a sottolineare, gonna corta e stivali col tacco che così sui questi monti non se n’era mai visti. Due ubriachi a braccetto arrancano  in senso opposto, rollio e beccheggio da mare forza dieci, scarrocciano a dritta e adesso sono in tre abbracciati. Il braccio cinge e la sinistra strizza una tetta e la destra saggia il ventre mentre una bocca credendo di mormorare all’orecchio urla ai quattro venti e il terzo  un po’ sostiene, un po’ s’appoggia,  un po’ si sporge per vedere e quasi cade e tira giù tutti. Lei sorride, mostra l’orologio, indica gli uffici, si sfila con grazia e riprende il defilé verso il lavoro mentre i due proseguono la navigazione verso il bar.

Bayan Olgiy e ormai ti sei rassegnato ad andare ai 25 km/h che poi diventano drasticamente di meno perché ogni due sassi qualcuno urla picture! e  tutti scendono per fotografare,    quarda l’aquila, lì c’è il nido, là una gher e 150 km sono quasi un giorno di viaggio e in fondo va bene così ché a forza di buche, pietre,  tôle ondulée, avallamenti etc quasi abbiamo il parkinson.  Si cerca un albergo (meglio: una doccia) si finisce da un privato (che ci porta alle docce pubbliche)  tra vetrinette con scatole (vuote) di biscotti al cioccolato e succhi di frutta (finiti) in esposizione.  Per cena zuppa di  montone  accompagnata da gnocco fritto allo strutto di montone. Cortile cintato, in un angolo l’orto, nell’altro il bagno  ( muro basso vista strada, se sbagli pisci sul marciapiede), la stalla con la capra sotto chiave, ogni stanza una costruzione:  cucina,  sala e  camera da letto (affittata a noi).  Poster della Mecca made in China in camera da letto  e vodka party in sala  fino all’alba (solo per la famiglia) mentre banane, uva, manghi e ananas tra palme e bicchieri di cristallo vegliano la nostra digestione dal poster in anticamera. Colazione a base di gnocco fritto e nescafé superlight e il ritorno del montone come alimento principe (un sospetto che diviene certezza).


Khvod e fortuna che non nevica come annunciato ma fa solo un freddo cane (in realtà è solo un problema di escursione termica). Poi piove e in ogni pozzanghera il sospetto di una trappola, la velocità che crolla ulteriormente, salite e discese, passi di montagna a 2500 metri, fiumi da guadare  e la Bravo che supera egregiamente ogni prova

Acqua a secchiate dal cielo, guadi da cercare, fiumi che invadono la strada  e  la certezza che arrivando un giorno  o due dopo con la Bravo non saremmo riusciti a passare:   Deervi è la tenda che c’era e non c’è più e bisogna trovare da dormire al coperto perché fuori ci sono 8 gradi e continua a piovere. E’ una notte senza luna né lampioni,  una “stazione” dove gli  “autobus” fanno sosta. E’ la cameriera del Kafé che ci accompagna alla ricerca dell’”hotel”, una ragazzina in maglietta che cammina eretta sotto un diluvio d’acqua fredda senza neanche un fremito di ciglia. E’ l’odore di montone bollito che ormai impregna tutto e tutti,  il Kafé dove una donna allatta, un’altra ti mostra cosa c’è per cena (minestra di capra), la ragazzina serve ai tavoli e non si è neanche asciugata il viso e poi dal soffitto ti goccia vicino al piatto. Due avventori che cercano di comunicare con noi, un terzo troppo ubriaco che una donna blocca sulla soglia e  rimanda a casa. E alla mattina scopri invece un villaggio dotato di banca, scuole, asilo e karaoke.


Altay e la Lonely che al solito è da “interpretare”. Temperature diurne in crescita, montagne che ci accompagnano sulla sinistra, medie di percorrenza in aumento e il deserto dei Gobi a destra. Le piste si moltiplicano,  si incrociano, si allontanano, sulla mappa sterrati come autostrate, strada persa , strada ritrovata, sole e cartina per navigare, una pista che passa troppo a sud e siamo nel deserto. E’ una strada più breve ed il fondo  è migliore, strada persa, strada ritrovata  e la batteria che decide di morire in mezzo al deserto.
Ops.
Un camion che ci ignora, un altro che si ferma, un furgone che ci trascina, la Bravo che riparte.
Notte in un accampamento di gher confidando in un’altra partenza “lanciata”, un team inglese in ambulanza e una batteria per la Bravo. Ancora deserto, strada persa, la Bravo in versione mietitrebbia, strada ritrovata, deserto, buche e una ruota che va in pensione.

Arvayheer che non è UB (Ulaan Baatar) ma ci siamo quasi,  abbandonati cavalli e cappotti tradizionali con fusciacca,  atmosfera urbana tra auto con stereo a tutto volume, pub e disco che assordano i clienti con tecno russa, banche ovunque, alberghi, minimarket. Poco importa che conti 20.000 abitanti,  la metà di questi viva nelle tende in perferia e alle 23.00 tutto chiuda: non solo questa è una città ma qui inizia la Mongolia "moderna". Lo dicono gli occhi del vigile in moto che sprizzano orgoglio, la strafottenza della receptionist che ci rifiuta una camera, il cappello da rapper dei ragazzini.

Al ristorante cinese  la carta crespa in differenti cromie usata sia come tovagliolo che come carta igienica interroga la nostra infanzia e la corretta interpretazione degli esercizi proposti dalle maestre.

Karkhorin, i templi buddisti,  i monaci
e i ragazzini costetti a salmodiare per noi, l’antica capitale, l’accampamento fuori delle antiche mura e una notte di stravento.

Poi, 17.500 km dopo Milano, UlaanBaatar.

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